INTERVISTA Pisicchio (Cd): “Dopo il Cav resterà il centro. I partiti temono i controlli”

Pubblicato il 15 Ottobre 2013 alle 20:30 Autore: Gabriele Maestri

INTERVISTA Pisicchio (Cd): “Dopo il Cav resterà il centro. I partiti temono i controlli”

Mentre la politica in queste ore divide la quasi totalità dell’attenzione tra la legge di stabilità e la diatriba sul voto segreto o palese applicato al caso di Silvio Berlusconi, rischia di calare molto silenzio sull’iter della legge sul finanziamento ai partiti, che sta procedendo decisamente a rilento rispetto alle previsioni.

Le luci, invece, si sono spente da tempo sulle proposte di introdurre regole sulla democrazia interna ai partiti, dando piena attuazione all’articolo 49 della Costituzione. Dell’argomento si è occupato, da politico e studioso, Pino Pisicchio, deputato di Centro democratico e presidente del gruppo misto alla Camera. Politico di lungo corso (e di varie militanze), Pisicchio spiega il suo sistema di “finanziamento” ideale, parla delle paure dei partiti e profetizza il grande potenziale espansivo del centro dopo Berlusconi.

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Onorevole Pisicchio, in queste settimane si discute moltissimo del finanziamento ai partiti e in particolare dell’opportunità di lasciar sopravvivere le sovvenzioni pubbliche o di consentire solo quelle private. Il sistema in vigore a suo parere va cambiato?

Guardi, per cominciare io sono da sempre del parere che la forma partito, allo stato delle conoscenze umane e delle relazioni nei consorzi sociali sia l’unico strumento per l’esercizio della democrazia. Esistono anche altri momenti: movimenti e altri gruppi sociali, tutte le realtà che concorrono a creare un flusso di opinioni sono importanti, però il partito è l’unico strumento che traduce l’orientamento del popolo in rappresentanza e dunque in decisioni politiche e proietta gli orientamenti diffusi nella società all’interno delle istituzioni.

Un ingrediente necessario dunque?

Già, insostituibile. Ciò premesso, mi sembra piuttosto bislacco immaginare che i partiti possano sopravvivere soltanto con l’aria o con il contributo dei privati. La mia definizione ideale di una buona struttura pubblica di sostegno alla politica vede l’offerta ai partiti, più ancora che di denari, di risorse che possono essere rappresentata da spazi, ospitalità sui media, strumenti per la partecipazione.

Un pagamento in servizi, insomma.

Esattamente questo. Certo, accanto a questo è necessaria anche una provvista di risorse economiche in senso diretto. È però evidente che tutto questo va inserito in un ridimensionamento complessivo delle spese: non si può immaginare di giocare, come si è fatto per tanti anni, con l’ambiguità semantica del «rimborso», che in realtà significava «finanziamento» e utilizzo oltre ogni ragionevole misura e senza controlli di questi fondi.

Da più parti però si chiede l’abolizione totale…

Chi agita la bandiera di un finanziamento interamente privato o è in malafede, o ha un’idea generale della dialettica politica che risponde piuttosto a quella declinata da Samuel Huntington e qualche altro suo collega che, con un cospicuo finanziamento della Trilateral Commission di David Rockfeller, scrissero un libro che si chiamava La crisi della democrazia, edito in Italia da Franco Angeli. Nel volume si sostiene il bisogno di cancellare i partiti e il loro imbroglio perché i partiti sostengono il welfare state, essendo necessario recuperare tutte le risorse che gli stati destinano allo stato sociale e usarle per rimpinguare le casse delle banche perché servono soldi per rilanciare il capitalismo. Eppoi, sempre in quel libro, si dice che è necessario che ci sia un solo uomo al comando, votato direttamente dal popolo che gli mette intorno un gruppo di tecnici che gli faranno da governo. Punto.

Un’idea da buttare, dunque.

Beh, francamente non è l’idea in cui io mi rispecchio.

partiti finanziamento

Nella scorsa legislatura una delle oltre trenta proposte di legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione sul piano della democrazia interna ai partiti in materia era sua: i partiti avevano detto di voler arrivare a una legge ma non se ne è fatto nulla e ora non se ne parla più. Perché i partiti non vogliono darsi minime regole di democrazia interna?

Mah, guardi, questa è una bella domanda. In realtà anche questa legge sul finanziamento ai partiti che speriamo questa settimana di varare tocca in qualche modo questi profili, ma non nella dimensione piena che sarebbe stata auspicabile.

Lo fa solo dall’esterno.

Già, rimbalza, non lo fa in via diretta. Io credo che valga ancora quella specie di terrore, di preoccupazione o, se preferisce, di diffidenza che all’epoca della Costituente avevano alcune forze politiche – in primo luogo il Pci – intorno alla proposta di Costantino Mortati che intendeva esplicitare l’indicazione del «metodo democratico» con riferimento non solo alla dialettica tra partiti, ma anche all’interno dei partiti stessi. Questo avrebbe implicato l’attuazione di statuti rispondenti ad alcuni criteri e, sicuramente, la possibilità di metterci il naso da parte dello Stato. Evidentemente tutto questo non piace a partiti che sono diventati un po’ tutti leaderisti o addirittura cesaristi.

Qualche esempio?

Io sono uno di quelli che ha sempre guardato con molta perplessità a meccanismi come le primarie, che hanno senso in un contesto come quello americano, mentre qui hanno un significato del tutto diverso.

Mi faccia capire: all’inizio il problema era salvaguardare il centralismo democratico del Pci e i pacchetti di tessere soprattutto in ambito Dc, mentre ora si vogliono salvare le primarie?

Innanzitutto i partiti personali non sono finiti. Calise con quella felice espressione disegnò una stagione che non è ancora conclusa: i partiti sono ancora abbastanza personali, quelli di derivazione marxista o comunque di area sinistra magari meno. Tuttavia, l’intervento di strumenti che sono un’applicazione di una sorta di “antipolitica autogenerata”, “autoimposta”, come fare le primarie per mostrare che ci si apre alla pubblica opinione ma in realtà giocarsi tutto all’interno delle nomenklature – non modifica certo lo stato di cose. Saranno diverse le ragioni, ma non cambia la diffidenza verso l’attuazione dell’articolo 49.

Il suo partito si chiama Centro democratico: il «centro» spesso appare come un (non)luogo dai contorni incerti, a volte esiste, a volte no, magari cambia forma. Che futuro ha il centro in Italia?

Le rispondo in maniera diretta: la chiusura del ciclo berlusconiano, che indubbiamente sta avvenendo…

Ne è sicuro?

Sì, Berlusconi come persona ormai è al tramonto, è fuori dal campo della politica a prescindere dall’esito giudiziario delle vicende ancora sospese. Il berlusconismo invece non è ancora finito, abbiamo oggi una modifica dell’impianto ideologico in questo paese e dal punto di vista antropologico l’ideologia è ancora viva.

silvio-berlusconi

Ma può resistere il berlusconismo senza Berlusconi?

Consideravo appunto questo. Il berlusconismo senza Berlusconi secondo me non sopravvive: si raggruppo attorno a quella che possiamo considerare l’area “zoologica” del Pdl, le varie pitonesse, falchi,… tutta questa cerchia. Cosa vedo io nel prossimo tempo, considerando che la sentenza della Corte costituzionale a dicembre metterà comunque in moto una revisione della legge elettorale…

Mi permetta, da studioso, di non esserne certo…

Tutto può essere, ma tenga presente che comunque la legge è arrivata là e un qualche giudizio ci sarà. Non dimentichi poi che nella Corte oggi c’è la presenza di raffinati costituzionalisti che, come Giuliano Amato, sono dotati anche di sensibilità politica e sono in grado di cogliere quella sollecitazione.

Mettiamo che sia così. Dicevamo del centro.

Beh, con l’intervento anche di una spinta da parte dei meccanismi elettorali – perché la politica non esiste se non come prodotto delle leggi elettorali – credo che avremo una situazione di questo genere. A sinistra una sinistra massimalista, rappresentata da Vendola ma anche da un pezzo di Pd; accanto una sinistra riformista, quella del Pd post-comunista e post-democristiano, il Pd “post”, quello di Renzi diciamo; poi un’area larga che prende dalla periferia del Pd alla periferia del Pdl, comprendente una parte cospicua dell’elettorato più “liberale” lasciato orfano da Berlusconi; poi ancora il “ridotto delle pitonesse”, dunque la destra; da ultimo, l’antagonismo dei 5 Stelle.

Cinque parti dunque.

Un assetto pentapolare, in cui evidentemente il centro ha un campo di azione molto vasto. Di fatto, essendo occupato lo spazio di destra, le sensibilità più liberali e solidariste possono trovarsi insieme. Non è dunque una cosa geometrica, ma uno spazio politico che effettivamente c’è. Solo che le modalità della politica di oggi sono tali per cui noi siamo portati a vedere le cose appunto attraverso le lenti del leaderismo e del cesarismo: la prima domanda che ciascuno si fa è «Chi sarebbe il coagulatore?» Beh, vediamo: intanto lo spazio politico c’è e si offre. E gli spazi in politica non rimangono mai vuoti: c’è sempre qualcuno che li occupa.

Ma questa struttura pentapolare non le ricorda una struttura che, da sinistra a destra, sia composta da Pci, Psi/Psdi/Pri, Dc/Pli e altri moderati, Msi e antisistema?

Mah, non ho mica immaginato che la cosiddetta “Prima Repubblica” fosse così strana come articolazione politica. Certo, può somigliare… anzi, magari somigliasse davvero: vorrebbe dire che un po’ di nobiltà e dignità nella politica sono tornati.

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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