Nucleare: il problema delle scorie radioattive (II)

Pubblicato il 11 Giugno 2011 alle 09:20 Autore: Matteo Patané
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Come descritto nella Parte I del dossier legato allo smaltimento dei rifiuti radioattivi, nel mondo attualmente vi sono poco meno di 200.000 tonnellate di scorie nucleari, a cui se ne aggiungono – all’attuale ritmo di produzione, che tende a diminuire per via della maggiore efficienza delle centrali e contemporaneamente a crescere per la costruzione di nuovi impianti – oltre 6.500 ogni anno.

Il problema del trattamento e dello stoccaggio delle scorie nucleari è quindi quantomai attuale, e deve essere affrontato in maniera appropriata per non lasciare una pesante eredità alle generazioni future.

Il problema può essere così sintetizzato: come gestire degli elementi fortemente tossici e radioattivi in modo che non possano cadere nelle mani di organizzazioni terroristiche e non contaminino la biosfera per tempi dell’ordine del milione di anni, per di più in maniera economicamente sostenibile?

Le possibili soluzioni, tentate o anche solo prese in esame, sono sostanzialmente riconducibili a tre filoni principali: immagazzinare il materiale nella biosfera, isolandolo da essa tramite barriere ingegneristiche o naturali; ritrattare il materiale in maniera da diminuirne la pericolosità; allontanare il materiale dalla biosfera. Ciascuna soluzione ha i suoi pro ed i suoi contro, ma nessuna, al giorno d’oggi, è ancora riuscita a soddisfare tutti i requisiti necessari per essere uniformemente adottata dalla comunità internazionale per la gestione dei rifiuti radioattivi.

Il primo problema con cui bisogna confrontarsi al momento dello stoccaggio delle scorie radioattive è quello del calore: per i primi sei mesi le scorie radioattive sono talmente calde da necessitare di apposite piscine di raffreddamento. Successivamente il materiale può essere maneggiato, ma il calore costituisce una caratteristica rilevante delle scorie per circa un secolo. Ogni modalità di stoccaggio, tecnologica o geologica, deve tenere quindi conto di questo fattore.

Uscite dalla piscina di raffreddamento, le scorie subiscono un processo di vetrificazione – per le scorie di origine militare si iniziano ad utilizzare i primi prototipi di roccia sintetica. La massa così ottenuta viene poi inserita, ancora fusa, dentro cilindri di acciaio inossidabile, a loro volta poi sigillati. In questa forma le scorie radioattive risultano ermeticamente separate dalla biosfera, a meno che forze esterne quali attentati o terremoti distruggano gli involucri, per tempi dell’ordine delle migliaia di anni. Se una tale cifra è sufficiente per uranio e plutonio, risulta invece del tutto inadeguata per gli elementi transuranici. Di fatto nessuna opera ingegneristica umana ha speranze di poter sopravvivere per un milione di anni.

La ricerca di depositi geologici diventa quindi essenziale. Diversi Stati si sono cimentati in una simile impresa: la Finlandia di fatto è l’unico Paese al mondo dove è in corso, sia pure tra mille polemiche, la costruzione di un deposito geologico, presso Olkiluoto. Svezia, Canada e Svizzera sono in fase avanzata di sperimentazione, rispettivamente presso formazioni di granito e di argilla. Gli USA, dopo un travagliato percorso ventennale, hanno invece posto la parola fine al progetto di deposito tufaceo di Yucca Mountain, restando di fatto senza progetti sullo smaltimento delle scorie nucleari.

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L'autore: Matteo Patané

Nato nel 1982 ad Acqui Terme (AL), ha vissuto a Nizza Monferrato (AT) fino ai diciotto anni, quando si è trasferito a Torino per frequentare il Politecnico. Laureato nel 2007 in Ingegneria Telematica lavora a Torino come consulente informatico. Tra i suoi hobby spiccano il ciclismo e la lettura, oltre naturalmente all'analisi politica. Il suo blog personale è Città democratica.
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