Responsabilità del medico anche in caso di prognosi infausta: ecco perchè

Pubblicato il 17 Febbraio 2021 alle 12:29 Autore: Claudio Garau
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Responsabilità del medico anche in caso di prognosi infausta: ecco perchè

In questo non facile periodo in cui il problema sanitario è stato ed è di primaria importanza, l’opinione pubblica è stata scossa dai casi di abbandono per terra dei pazienti affetti da coronavirus, ricoverati nelle strutture ospedaliere. Ma più in generale non sono rare le ipotesi nelle quali chi si trova in gravi condizioni di salute, rischia di non ricevere cure adeguate da parte del personale sanitario, con indubbi riflessi in tema di responsabilità del medico.

Il Codice di deontologia medica parla chiaro: i sanitari hanno il dovere di non abbandonare mai i propri pazienti, neanche in caso di prognosi infausta. Vediamo più nel dettaglio.

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Responsabilità del medico e art. 39 Codice deontologico

Nel Codice deontologico c’è una disposizione che è fondamentale, per l’argomento di cui ci occupiamo, ossia l’art. 39. Infatti, vi si trova sancito l’obbligo per tutti i medici di assistere i pazienti con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza. In altre parole, ogni componente del personale sanitario non può abbandonare il malato, neanche se in condizioni di salute pessime.

L’articolo citato, in tema di responsabilità medica, è assai esaustivo. Ecco cosa prevede: “Assistenza al paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza: Il medico non abbandona il paziente con prognosi infausta o con definitiva compromissione dello stato di coscienza, ma continua ad assisterlo e se in condizioni terminali impronta la propria opera alla sedazione del dolore e al sollievo dalle sofferenze tutelando la volontà, la dignità e la qualità della vita. Il medico, in caso di definitiva compromissione dello stato di coscienza del paziente, prosegue nella terapia del dolore e nelle cure palliative, attuando trattamenti di sostegno delle funzioni vitali finché ritenuti proporzionati, tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento“.

Parafrasando l’articolo menzionato, il medico che non intende incappare in responsabilità deontologica, deve svolgere le attività indicate, dando comunque sollievo dalle sofferenze e proteggendo qualità, dignità e volontà del paziente, anche laddove le sue condizioni di salute volgano al peggio.

La disposizione riguarda l’esercizio professionale proprio del medico, ossia non circoscritto all’applicazione delle mere competenze tecniche, bensì allargato all’elemento umano, ed etico-deontologico. Si fa dunque riferimento anche ad una assistenza di tipo morale, a una scelta terapeutica in considerazione della situazione terminale del paziente, ma che comunque è finalizzata a rendere l’ultima parte della vita degna di essere vissuta. In buona sostanza, il Codice deontologico individua quelli che devono essere i principi-guida dell’attività medica di fronte ai malati con prognosi infausta, i malati terminali e coloro che sono prossimi all’evento morte.

Tra cure palliative e compromissione dello stato di coscienza: il delicato ruolo del medico

Secondo gli esperti del settore medico, le cure palliative sono, inoltre, da considerarsi come il più adeguato antidoto alla richiesta di eutanasia, la quale spesso consiste in una vera e propria a fuga da una situazione esistenziale intollerabile dal lato umano, che può essere ovviata esclusivamente da una differente qualità dell’assistenza alla persona prossima all’evento morte, non burocratica ed impersonale, ma in cui siano quanto meno garantite le condizioni di una morte con dignità.

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Per quanto riguarda il problema del sostegno vitale ai malati con compromissione dello stato di coscienza, è lasciato al medico di decidere se protrarre le terapie di sostegno vitale. In tale categoria, sono inclusi
i malati che manifestano tipologie di alterazione di stati di
coscienza più o meno gravi e nei confronti dei quali può non essere possibile la formulazione di prognosi certa. In queste circostanze,
il medico è posto innanzi ad ardui interrogativi sulle scelte da adottare, in relazione alle terapie di sopravvivenza.

Si può dunque concludere che, alla luce dell’art. 39 menzionato sopra, il tema della responsabilità del medico dal punto di vista deontologico è quanto mai delicato, specialmente se ci si muove entro i confini della disposizione citata. Va da sè, tuttavia, che la regola fondamentale resta quella del non abbandono del paziente, neanche in ipotesi di prognosi infausta.

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L'autore: Claudio Garau

Laureato in Legge presso l'Università degli Studi di Genova e con un background nel settore legale di vari enti e realtà locali. Ha altresì conseguito la qualifica di conciliatore civile. Esperto di tematiche giuridiche legate all'attualità, cura l'area Diritto per Termometro Politico.
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