Trasferimento fuori regione del dipendente: come funziona e quali i limiti

Pubblicato il 3 Novembre 2020 alle 15:25 Autore: Claudio Garau
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Trasferimento fuori regione del dipendente: come funziona e quali i limiti

Il trasferimento del lavoratore dipendente lontano dal luogo di residenza, ovvero fuori regione, non è una ipotesi remota, e nemmeno – con tutta probabilità – la preferita dallo stesso dipendente. Infatti, non di rado motivi affettivi e altre ragioni connesse a carattere, passatempi e aspirazioni del lavoratore, rendono il lavoro vicino a casa la scelta più congeniale per la propria vita. D’altronde, anche i recenti dati sullo smart-working, che attestano come questa modalità di lavoro sia apprezzata dai più, confermano altresì che i lavoratori preferiscono generalmente non allontanarsi troppo dal luogo di residenza. Ma, nonostante ciò, il trasferimento del dipendente può essere talvolta oggetto di una scelta unilaterale del datore di lavoro, entro però – come vedremo – certi limiti.

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Trasferimento dipendente: cenni essenziali

Come anticipato, il datore di lavoro può talvolta optare per il trasferimento del lavoratore presso altra sede aziendale, e quindi lontano dal luogo di residenza. Ma può farlo soltanto rispettando alcuni vincoli stabiliti dalla legge.

Infatti, giuridicamente parlando, il trasferimento del dipendente non è una variazione di poco conto, consistendo di fatto nella modifica disposta ad uno dei dettagli fondamentali del contratto di lavoro. Il luogo di lavoro è un dato che deve essere incluso nel testo del contratto individuale e nella lettera di assunzione, che indica livello di inquadramento, mansioni, orario di lavoro e altri dettagli essenziali per instaurare il rapporto di lavoro che lega lavoratore e azienda. E’ chiaro che individuare il luogo in cui recarsi per lavorare, è fondamentale da un lato per eseguire le prestazioni indicate in contratto, e dall’altro per maturare così il diritto alla retribuzione.

Tuttavia, nel pieno rispetto dei principi di autonomia privata e di libertà contrattuale, le parti possono decidere – nel corso del tempo – di cambiare l’indicazione della sede di lavoro, così come possono decidere di modificare altre condizioni contrattuali, come ad esempio l‘orario di lavoro.

L’ipotesi primaria è quella che prevede la modifica del luogo di lavoro, ovvero il trasferimento del dipendente presso altra sede aziendale, con il sì di ambo le parti, datore di lavoro e dipendente, che dunque si accordano prima di apporre la modifica nel contratto.

Ma l’art. 2103 del Codice Civile che definisce i tratti essenziali della prestazione lavorativa, ci ricorda che:

Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva ad un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive“.

In questi casi, ovvero ragioni oggettive legate al buon andamento dell’attività aziendale e dunque al profitto, la legge vigente concede al datore di lavoro di optare per la modifica unilaterale del luogo di lavoro, con trasferimento del dipendente presso altra sede, ma senza il suo previo consenso.

I limiti entro cui decidere di spostare il dipendente

Dal punto di vista geografico, nelle norme di diritto del lavoro non si rintracciano regole per le quali valgono limitazioni territoriali al trasferimento. Piuttosto, sussistono norme di garanzie a favore di alcune categorie ritenute meritevoli di speciale protezione, come ad es. i lavoratori che assistono familiari disabili e conviventi e le lavoratrici neo-madri, fino al compimento di un anno del figlio: in relazione ad essi, il datore di lavoro non ha piena libertà di trasferimento a livello geografico.

Ma in linea di massima, il trasferimento ad altra sede può essere effettuato sia in altro Comune, che in altra provincia o regione. Insomma è ammesso, ad esempio, un trasferimento dalla sede aziendale di Milano a quella di Roma. D’altronde però la legge richiede che il trasferimento sia basato su motivazioni oggettive di natura organizzativa, produttiva o tecnica. Dal punto di vista formale, il datore non deve menzionare le ragioni dello spostamento ad altra sede, nella lettera con cui avvisa il lavoratore che sarà trasferito. Tuttavia, dette ragioni debbono essere oggettivamente dimostrabili in caso di contestazione del lavoratore, che sfoci in una controversia in tribunale presso il giudice del lavoro.

Pertanto in caso di impugnazione del trasferimento da parte del lavoratore, due potranno essere gli esiti della causa:

  • il datore di lavoro dimostra le oggettive esigenze che hanno reso necessario il trasferimento, e il giudice lo conferma; dovrà in particolare chiarire perchè quel lavoratore era necessario nella nuova sede, e non più necessario nella vecchia, e dovrà chiarire di aver rispettato i criteri di buona fede e correttezza nel disporre lo spostamento unilaterale;
  • il datore di lavoro non riesce a dimostrare le oggettive esigenze, e il giudice dà ragione al lavoratore, con una sentenza che annulla il trasferimento e dispone il ritorno al precedente luogo di lavoro.

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Concludendo, se è vero che sussiste un generale diritto del datore di lavoro di decidere per il trasferimento anche a centinaia di km di distanza, con conseguente radicale cambiamento degli orari, delle abitudini e dei ritmi della persona spostata da una sede all’altra, è altrettanto vero che non di rado – proprio per questo – il lavoratore non accetta il trasferimento in località lontana, magari per stare vicino alla famiglia. Ebbene, in queste circostanze il lavoratore è costretto a terminare la propria esperienza lavorativa presso l’azienda, ma la legge garantisce al dipendente che rifiuta il trasferimento, la cosiddetta indennità di disoccupazione, anche detta Naspi, per due anni. Debbono però ricorrere due condizioni obbligatorie, per poter ottenere questa copertura economica in attesa di trovare un nuovo lavoro:

  • la nuova sede di lavoro deve essere ad oltre 50 km dalla propria residenza e/o raggiungibile con i mezzi di trasporto pubblico con oltre 80 minuti di tempo di media;
  • azienda e lavoratore risolvono consensualmente il rapporto di lavoro.

Nelle citate circostanze, l’Inps erogherà senza indugio l’indennità Naspi, come una sorta di eccezione alla regola che vuole il divieto di detta indennità laddove la fine del rapporto di lavoro dipenda da motivo del lavoratore. Infatti, il legislatore accoglie le legittime ragioni di chi non può accettare un trasferimento molto lontano, e ritiene in qualche modo la perdita del lavoro come involontaria, ovvero non dovuta all’iniziativa del lavoratore bensì ad una scelta aziendale.

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L'autore: Claudio Garau

Laureato in Legge presso l'Università degli Studi di Genova e con un background nel settore legale di vari enti e realtà locali. Ha altresì conseguito la qualifica di conciliatore civile. Esperto di tematiche giuridiche legate all'attualità, cura l'area Diritto per Termometro Politico.
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