(2/2) Emilio Ferraris, per sua moglie attraverso il fuoco e la neve

Pubblicato il 23 Ottobre 2020 alle 15:30 Autore: Nicolò Zuliani

Un’anabasi epica all’interno di un’altra anabasi epica, con macchiette assolutamente italiane, un lieto fine e un corollario amaro.

Emilio non era stato chiamato da Cosma, ma era stato lui a fare di tutto per entrare nel CSIEO che ormai era stato ribattezzato da tutti “Missione Manera”. Nel 1919 buona parte dei ragazzi è riuscita a tornare a casa, ed Emilio chiede a Manera di fare la rotta inversa per andare a recuperare sua moglie. Dice che ne approfitterà per osservare e vedere le condizioni della Russia bolscevica, di cui nessuno ha davvero fonti di prima mano.

Cosma non è molto d’accordo. Ormai la Russia è diventata un buco nero. Lui l’ha attraversata durante il crollo; andare a est nel 1919 è come uscire dalle miniere di Moria per poi fare dietrofront sperando di uscire dall’entrata principale. Ferraris lo convince dicendo che nel farlo potrà cercare e salvare anche gli irredenti rimasti indietro.

A quell’idea, il maggiore acconsente

La notte di capodanno 1919, Emilio Ferraris parte da Vladivostok con solo un soldato semplice a fargli da attendente, tale Angelo Vigliotti di Pergine (TN). Arrivano a Michailova, ultimo avamposto dell’armata bianca presidiato dai soldati di Kolchak. Poi oltrepassano la linea e arrivano a Irkutsk il 9 gennaio dove trovano i francesi che stanno disperatamente cercando di mediare un accordo con un fantomatico “Centro politico” per riuscire ad andarsene.

Il generale Janin, quando Ferraris gli domanda una locomotiva per raggiungere Krasnojarsk, gli domanda se è impazzito: «A Kranosjarsk ci sono solo morti, fame e neve». Ferraris insiste, e il francese gli consiglia di rivolgersi al Centro politico, perché solo loro possono dare permessi di viaggiare o fornire carrozze. Ferraris e Vigliotti vanno alla sede e la trovano assediata di gente lì per il loro stesso motivo. Dopo tre risse, una quasi sparatoria e qualche mazzetta riescono ad avere udienza con il Presidente, tovarisc Antonov.

L’uomo li accoglie con un gran sorriso e quando apre bocca parla italiano con marcato accento del sud. Antonov in realtà si chiama Antonio, è un napoletano fuggito in Russia 14 anni prima. Ha riconvertito i suoi ex operai in soldati di ventura, si è dato al sistematico massacro di contadini inermi saccheggiando e stuprando; ha scacciato le armate zariste e ora controlla i trasporti di Irkutsk. Come?

«Ho preso in ostaggio le famiglie dei macchinisti e piantonato le locomotive.»

Anto’ è nella trepidante attesa d’incontrare a Omsk il Commissario del popolo, perché è convinto che lui e la sua banda di tagliagole verranno riconosciuti come rivoluzionari e gli verrà regalato uno Stato cuscinetto tutto per lui. Quando Ferraris gli domanda cosa lo renda tanto sicuro, Anto’ racconta serafico di un complotto andato a buon fine.

Ha ricattato i francesi, dicendo che se volevano andarsene dalla Russia dovevano consegnargli nientemeno che l’ammiraglio Kolchak in persona, cioè il capo supremo delle armate controrivoluzionarie. E i francesi lo faranno, appena l’ammiraglio arriverà lì scortato dai Cechi che in cambio hanno chiesto una cosa semplicissima: l’oro dello zar.

Ferraris e Vigliotti sono ospiti di Anto’. Vedono coi loro occhi la consegna di Kolchak ai rivoltosi, che lo chiudono in prigione. Lui e Vigliotti partono sul treno presidenziale di Anto’ il 12 gennaio, ma una volta arrivati a Kansk vengono fermati dall’ufficiale di comando, che sta aspettando l’arrivo dei bolscevichi. Questi arrivano il 15 gennaio su un treno pieno di bandiere rosse, ma i bolscevichi sono ubriachi e indolenti a qualsiasi comunicazione.

Ferraris, Vigliotti e Anto’ devono partire con un treno di nascosto, e arrivano a Krasnojarsk la mezzanotte del 17. Qui l’atmosfera è pessima: ci sono guardie rosse aggressive e curiose. Ferraris se ne accorge, dando a Vigliotti ordini precisi: scendere in fretta, scaricare i bagagli e correre fuori dalla stazione senza dire una parola in italiano. Avrebbe funzionato, se nel buio un russo non avesse tirato una gomitata in faccia a Vigliotti.
Lui aveva risposto con uno spintone e una bestemmia “di pura marca veneta”.

Li circondano.

Ferraris parla un russo perfetto, spiega le loro ragioni e mostra i documenti di viaggio, ma non serve a niente. Li arrestano e li portano dal comandante della città. Ironia della sorte, la casa dove si trova è la stessa che Ferraris conosce bene, dato che era il loro quartier generale quando avevano combattuto fianco a fianco con gli zaristi, e contro quelli che ora la occupavano.

All’inizio le cose sembrano risolversi; il comandante parla una parvenza di italiano, perché era stato prigioniero in Austria e poi in un campo di concentramento a Trento. Gli firma un permesso di soggiorno per un mese, poi li fa dormire lì. Quando si svegliano, però, è cambiato tutto. Sono arrivate le guardie rosse della 5° armata, hanno dichiarato illegali il comandante e i suoi uomini, li hanno arrestati e ora Ferraris e Vigliotti sono prigionieri politici, cioè una sorta di arresto domiciliare con obbligo di firma.

Non possono andare a Mosca se prima non arriva il permesso.

Li tengono a Krasnojarsk due mesi assieme a tal capitano Marteau, francese, e 21 inglesi. Marteau è senza ricambi di biancheria o soldi, e Ferraris lo aiuta. Quando arriva finalmente notizia che possono partire, Marteau si rifiuta di andare. Dice che li uccideranno, e ha buoni motivi per sospettarlo. Gli arresti nell’Unione sovietica erano torture cinesi in cui venivi arrestato, interrogato e detenuto per mesi, poi liberato per due giorni, poi di nuovo incarcerato e interrogato, poi liberato per un anno, poi fucilato.

Senza mai sapere chi ti accusava di cosa.

Dopo tanti tentativi di convincerlo, Ferraris, Vigliotti e gli inglesi vanno in stazione. Il treno che doveva arrivare di pomeriggio, a mezzanotte non è ancora arrivato e in stazione non c’è un’anima. Iniziano a sospettare ci sia qualcosa che non va, quando si aprono le porte della stazione ed esce un uomo scoartato da quattro ungheresi della 3° divisione Internazionale con la baionetta inastata. Chiede chi sono gli italiani, poi li arresta per ordine della Vecekà, cioè la polizia segreta. Li conducono in un’altra casa e fanno entrare il vero Commissario del popolo, che lo interroga.

«Documenti e generalità.»
«Sono il capitano Ferraris…»
«Di leva?»
«No, dobrovòletz (volontario).»
«Vi siete battuto per la borghesia volontariamente?»
«Mi sono battuto per l’Italia, e sono qui per cercare fratelli sperduti.»
«Per la borghesia vi siete battuto, vi dico!»
«Così sia, se vi piace crederlo; ma che desiderate da me, gospodìn (signore)?»
«La Rivoluzione ha abolito i signori da noi; gospodìn oggi è ingiuria.»
«Sta bene. Che desiderate da me, tovarisc?»
«Che pensate della rivoluzione russa?»

Ferraris ha un’idea molto chiara, e cioè che “per sollevare un popolo schiavo i bolscevichi altro non hanno fatto che stimolarne gli istinti localizzati nel ventre, e hanno asservito il proletariato a padroni presto fatti più viziosi di quelli di prima, per finire col mettere la patria all’asta e ai Russi una camicia di forza di marca estera. Pietro il Grande aveva loro imposto quella olandese o tedesca, i bolscevichi gli mettevano quella marxista, facendo del lavoro una pena e dei contadini e operai i forzati della macchina o della gleba.

Ha il buonsenso di non rispondere

«Tovarish, ripeto che sono venuto quassù per rintracciare ancora dei Redenti; non ho mai meditato sulla Rivoluzione di ottobre… e poi a che il mio parere? Io, come straniero, non posso che starmene seduto a guardare. Da una parte veggo i bianchi, dall’altra i rossi. Io osservo e mi diverto come al dramma a teatro.»
«A teatro? Avete detto a teatro!? E forse in poltrona, anche? E voi dite che non vi siete battuto per la borghesia!»

L’interrogatore comincia a urlare come un pazzo una sequela di insulti e minacce. Ferraris è stato un Ardito in Cadore, non è un codardo. Nel suo diario chiede scusa a chi legge, fa presente che era passato da un vagone riscaldatissimo alla slitta al gelo e poi di nuovo al caldo. Durante l’interrogatorio salta in piedi mentre quello urla, chiede scusa e corre in bagno, lasciando tutti talmente sbigottiti che le guardie all’inizio nemmeno gli corrono dietro. Al ritorno, l’interrogatore gli domanda come mai conosca tanto bene quella casa, dato che ha trovato la ritirata a colpo sicuro. Ferraris dice che lì aveva combattuto agli ordini di Fassini Camossi, e le cose cambiano.

«E ai tempi del vostro Fassini Camossi avete preso parte a spedizioni punitive?»

Ferraris è fregato

Se dice di sì, lo fucilano. Se dice di no è inutile, perché se lo chiedono significa che lo sanno già. Consapevole di andare incontro alla morte, Ferraris dice: «Sì. Ho partecipato al reparto punitivo del colonnello Romerof, e vi affermo sul mio onore di ufficiale che salva allora la vita a molte donne e a centinaia di mijikì (contadini).»
«Questo lo so, che vi prenda il diavolo, e lo sanno anche i membri della cèka.»

Vengono chiusi in cella. Il mattino dopo, invece di essere fucilati, i due si trovano liberi con tanto di documento di viaggio firmato dalla 5° armata, una specie di lasciapassare simile a quello che gli aveva lasciato Cosma prima di partire. Questo però vale per tutta la Russia. È finto, naturalmente. Ferraris non dice come e da chi è arrivato, ma lo lascia intuire agli eventuali commilitoni che leggono.

U-uh.

La beffa era “germogliata” a Tien Tsin, in un club fatto dall’italiano Micozzi che era stato barman al Savoy e serviva cocktail grazie ai liquori che gli fornivano francesi e inglesi.

Il viaggio non è finito

Sul treno sono stipati assieme a dei marinai con facce da patibolo e un pope che per non farsi giustiziare si è finto rivoluzionario e ha rinnegato la Fede; ora è incerto se diventare un guerrigliero o tornare a fare il pope appena le acque si saranno calmate. Con Vigliotti dormono a turni di due ore per evitare di essere rapinati o uccisi, poi socializzano fino a diventare i mattacchioni del convoglio. Regalando a uno un pezzo di formaggio e a un altro una camicia, spiegano di essere italiani; i russi si interessano, si fanno raccontare com’è vivere nella penisola, così da ingannare il tempo e viaggiare con l’immaginazione.

Dopo giorni di viaggio, il lubrificante delle ruote di un vagone merci finisce, e l’attrito lo arroventa fino a incendiarlo

Si fermano in una stazione sperduta nel nulla per tirare fuori i sacchi di provviste e ripartirli negli altri scompartimenti, con Vigliotti che da solo fa metà del lavoro, salvando il salvabile e guadagnandosi l’approvazione dei marinai. Stanno per ripartire, sono risaliti tutti tranne Ferraris, quando dalla stazioncina esce una pattuglia di cinque guardie rosse per controllare i documenti. Appena leggono “capitano” sgranano gli occhi:

«Come, sei capitano? Io ti arresto! Da noi non ci sono più capitani!» tuona il più alto in grado.
«E io ti dico che in Italia ce ne sono ancora; e poi non è il tuo affare. Leggi piuttosto fino in fondo. Vedi lì il visto della 5° armata?»
«Basta! Seguitemi e chiariremo!»

Vigliotti scende dal vagone e si piazza di fianco a Ferraris. Loro sono solo in due, ma non possono perdere quel treno, perché non ne troveranno un altro, hanno i bagagli a bordo e se la prima volta si sono salvati, la fortuna non si sfida mai due volte. Le guardie sono mingherline; potrebbero disarmarne due in un attimo, ma hanno alle spalle troppi testimoni. Ferraris getta un’occhiata a Vigliotti per avvertirlo di tenersi pronto, quando alle loro spalle sentono i marinai urlare.

«Lascia stare! Vannoa Mosca per presentarsi all’Autorità sovietica. Tutti i punti di controllo li hanno lasciati passare!»

Il capo pattuglia è irremovibile. La locomotiva fischia. Ferraris chiede ai marinai di buttargli fuori almeno i bagagli, e con sua grande sorpresa vede quattro di loro scendere, afferrarli di peso e tirarli a bordo mentre la locomotiva parte, lasciando la pattuglia impotente: non possono sparare sui marinai. Dopo Riazàn vengono fermati ancora per un controllo che è in realtà una tentata rapina.

Tirano giù tutti i viveri, ma essendo notte i marinai – coordinati da Vigliotti – escono dai finestrini del lato coperto, fanno il giro del treno e li ributtano a bordo senza che i russi se ne accorgano.

Ferraris ha un ultimo colpo di genio

Consapevole che a Mosca di sicuro la Ceka li sta aspettando, scende con Vigliotti in una stazioncina più piccola, cambia treno e arriva a bussare alla porta di casa la sera del 16 aprile 1920, con sua moglie che appena lo vede fa un mezzo collasso.

Mentre Vigliotti scompare nel nulla della Storia, il resto della vita del capitano Ferraris non è allegro né bello. Svilupperà una dipendenza da morfina e cocaina, sfiderà a duello un ufficiale italiano che lo aveva accusato di essere sopravvissuto a quel viaggio vendendo informazioni all’Unione sovietica, sfregerà la faccia all’ambasciatore italiano e finirà in carcere. Poi, come molti altri eroi dimenticati e traditi, si farà ingannare da un codardo e farà la scelta sbagliata, rompendo l’amicizia con Cosma. Mussolini lo sceglierà come uomo fidato per andare a recuperare i prigionieri in Russia, ma Ferraris non ci riuscirà per molti motivi.

Su tutti, era diventato una persona diversa.

Fonti:
Soldati italiani nella Russia in fiamme, G. Bazzani, cap. XV
Convegno Le fonti diplomatiche in età moderna e contemporanea, 20-25 gennaio 1989
Missione in Siberia, Paolo Formiconi, Uff. Storico dello Stato Maggiore della Difesa
Quotidiano estone Kuulutaja Reede, 24 agosto 1932

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L'autore: Nicolò Zuliani

Veneziano, vivo a Milano. Ho scritto su Men's Health, GQ.it, Cosmopolitan, The Vision. Mi piacciono le giacche di tweed.
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