Le possibili strategie di Bersani

Pubblicato il 13 Febbraio 2010 alle 11:03 Autore: Giuseppe Mule

“It’s the economy, stupid” è lo slogan che nel lontano 1992 lanciò l’allora candidato alla Casa Bianca, Bill Clinton, nel firmamento della storia americana, facendo calare vertiginosamente tutti gli indici di popolarità dell’allora presidente in carica George H. Bush, poi sconfitto alle urne.

Le possibili strategie di Bersani

Gli strateghi della comunicazione del Partito democratico hanno di che imparare dall’esempio statunitense dopo anni di infelice e malriuscita propaganda sui fuochi d’artificio di Berlusconi e  dei suoi alleati leghisti.

Dalla caduta del governo Prodi fino al plebiscito per il Cavaliere nel 2008, le parole d’ordine che hanno segnato l’immaginario politico degli italiani, nel bene e nel male, sono state tutte dettate dal campo del centrodestra. Il quale ha saputo proporre una piattaforma conservatrice non allineata al modello europeo ma schiacciata sulle posizioni oltranziste della Lega Nord in tema di immigrazione, in grado di intercettare i consensi della maggioranza silenziosa.  Fino al colpo basso di Giulio Tremonti che a poche settimane dal voto si guadagnò la ribalta editoriale e politica con il saggio no global “La paura e la speranza”, capace di spiazzare lo stesso Fausto Bertinotti.

Al leader del Pd Bersani spetta un compito non certo facile. Il partito di cui ha preso le redini soffre un’ansia da prestazione, motivata dall’entusiasmo che i sondaggi avevano rilevato a poche settimane dal suo insediamento e che nei primi mesi dell’anno è calato fino a rasentare la soglia del 26% delle elezioni europee, con Franceschini segretario.

Bersani ha tutto l’interesse a trasformare il voto del 28 e 29 marzo in un test sul governo Berlusconi, stando però attento al rischio che si trasformi in un referendum pro o contro di lui, il cui esito non potrebbe che essere negativo per le file dell’opposizione.

L’arma migliore a sua disposizione sarebbe puntare sull’economia, facendo tesoro dell’associazione stretta tra la percezione che i cittadini hanno dell’andamento economico e il giudizio su chi ricopre la funzione di governo.

A diciotto mesi dallo scoppio della crisi, in Italia gli accenni di ripresa tardano a manifestarsi. Se le banche italiane hanno retto al tracollo che non solo in America ma anche in Europa ha polverizzato decine di istituti di credito, grazie ai gap strutturali del sistema nazionale (la loro modesta internazionalizzazione e le dimensioni contenute), per il sistema industriale e produttivo italiano all’orizzonte non ci sono prospettive rosee. I licenziamenti sono all’ordine del giorno e la vicenda di Termini Imerese è solo la punta dell’iceberg di un malessere che dilaga in tutto il Paese.

Seppure puntualmente stoppato da Tremonti, plenipotenziario in materia, il premier fino a qualche settimana fa ha fatto cullare nella testa degli italiani la promessa di un abbassamento delle tasse, prospettando l’agognata riforma fiscale. Allo stesso tempo, il governo si fa vanto di rispettare i vincoli imposti dall’adesione ai Trattati europei che impediscono per i prossimi anni qualsiasi riduzione della pressione fiscale.

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