Renzi: lo strappo di Bratislava è più grave di quanto sembri

Pubblicato il 20 Settembre 2016 alle 13:56 Autore: Luca Scaglione
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Renzi: lo strappo di Bratislava è più grave di quanto sembri

Lo strappo di Renzi a Bratislava ci riporta immediatamente alle storture del sistema di governance europea. Bisogna ammettere che l’uscita di Renzi sui parametri non rispettati da Germania, Francia e Spagna non è altro che un atto dovuto che ci pone davanti, qualora non ce ne fossimo ancora accorti, al fatto che all’interno dell’Unione i rapporti di forza sono stabilmente squilibrati. Il sistema intergovernativo in capo all’Ue porta inevitabilmente ad un blocco istituzionale continuo e stanti gli interessi divergenti dei singoli Stati – che legittimamente hanno il compito di difendere – ad un’impossibilità costitutiva di riforma.

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Renzi: lo strappo di Bratislava è più grave di quanto sembri

I summit, utilissimi nel mantenere un dialogo continuo tra gli Stati, non sono però un metodo di governance efficace. I governi degli stati membri infatti si rivolgono principalmente alle opinioni pubbliche nazionali, sempre più lontane dal formare un’unica opinione pubblica europea. Per cui l’Unione anziché essere l’arena dove si costruisce l’avvenire politico di un continente, diventa il luogo dove si tenta di risolvere i problemi interni dei singoli Stati, e di summit in summit aumentano i contrasti.

Renzi, stretto tra referendum e legge di stabilità, affronta il periodo più difficile della sua vita politica, i parametri e le lentezze europee lo condanno a manovre impopolari ed elettoralmente – oltre che economicamente – insostenibili. La Merkel, logorata da oltre 10 anni di leadership incontrastata, è messa a dura prova dalle elezioni dei lander, deve compattare una CSU sempre più insofferente e non può perdere un centimetro. Hollande disorientato da terrorismo e guerre in giro per il mondo è ormai il cartonato di se stesso incapace di prendere qualsivoglia decisione conscio della sua morte politica.

Ogni paese ha il suo elettorato interno, ciascuno, con interessi differenti, immobilizza l’UE, la cui trasformazione federale si è arenata ormai da troppo tempo per pensare di poter facilmente invertire la rotta. L’asse franco tedesco è solo l’ombra di quello che fu, e la leadership se la prende chi la esercita: i tedeschi appunto.

Per inciso, ad oggi, l’altra asimmetria fondamentale è la mancanza di ricambio dell’élite dirigente tedesca – sostanzialmente la stessa dall’epoca di Kohl – che ha consolidato negli anni posizioni di potere all’interno delle varie istituzioni europee.

Purtroppo continuare a non prendere atto che aver stipulato accordi monolitici in un clima ottimistico da fine della storia dopo la caduta del muro è stato un errore, non aiuta a comprendere la portata reale della crisi del progetto europeo. Chiuse dai veti incrociati le strade per le economie più in difficoltà rimangono soltanto due e portano in entrambi i casi verso destini incogniti. Continuare nel percorso “sicuro” della deflazione e dell’afasia degli investimenti oppure dare le chiavi delle democrazie a formazioni neo-populiste il cui progetto politico è, il più delle volte, indeterminato. Tertium non datur.

L’uscita del nostro Presidente del Consiglio ci pone davanti a questo semplice bivio. Senza sconti o ripensamenti dal versante europeo, con l’economia che non riparte, presto Renzi rischia di pagare dazio e per l’Italia il tempo di prendere la seconda strada si potrebbe avvicinare.

Luca Scaglione