Gruppo misto alla Camera: quali potrebbero essere le nuove componenti?

Pubblicato il 4 Agosto 2016 alle 19:28 Autore: Gabriele Maestri
commesso gruppo misto

Gruppo misto alla Camera: quali potrebbero essere le nuove componenti?

Non sono entrati in Parlamento, ma paradossalmente – per il solo fatto di avere partecipato alle ultime elezioni politiche con il loro simbolo – possono aiutare qualcuno a rimanerci con un minimo di organizzazione e con un complice insospettabile: il regolamento della Camera. Ciò che è avvenuto alla Camera all’inizio di giugno, con la nascita della componente del gruppo misto (di soli tre deputati) Ppa – Moderati grazie alla presenza elettorale del primo nel 2013 merita di essere valutato con maggiore attenzione.

Le origini

Per inquadrare meglio la questione, è il caso di sfogliare il regolamento della Camera, leggendo articoli qua e là. Le componenti del gruppo misto esistono ufficialmente dal 27 settembre 1997: a proporne l’istituzione fu la Giunta per il regolamento allora insediata, presieduta da Luciano Violante e con membri dei vari gruppi.

luciano violante di profilo mentre guarda sulla sua sinistra

In effetti, a livello informale queste articolazioni esistevano già, ma non avevano alcuna rilevanza giuridica. Il fatto è che, nel 1994 – dopo le prime elezioni con il Mattarellum – partiti anche di una certa consistenza (come Alleanza democratica e Psi) non vennero autorizzati dall’Ufficio di presidenza a costituire un gruppo parlamentare in deroga, avendo solo sfiorato la soglia dei venti deputati: tutti i loro eletti dovettero aderire al gruppo misto, che così divenne visibilmente disomogeneo, con compagini nutrite in disaccordo tra loro; tra ribaltoni e scissioni successive, la situazione nella breve XII legislatura non migliorò. Dopo le elezioni del 1996 quelle dinamiche si ripresentarono e la confusione nel gruppo crebbe: si corse ai ripari, con nuove regole che consentissero alle componenti “di esplicare pienamente l’attività politica parlamentare – così si legge nella relazione alle modifiche – nella forma più ampia e attraverso la più larga disponibilità di strumenti compatibile con l’ordinato ed efficace svolgimento dei lavori della Camera”.

Le regole

Al Senato la Giunta per il regolamento nel 2004 ha deliberato che “il Regolamento del Senato non conosce la figura delle componenti politiche del Gruppo misto”; non le cita nemmeno il regolamento dello stesso misto. Nella pratica, le componenti esistono, formate anche da un solo senatore, ma – appunto – non hanno quasi nessun valore, se non quello di segnalare la propria appartenenza, per dare visibilità al soggetto politico di cui si fa parte.
Alla Camera, invece, le regole ci sono. Per l’art. 24, il tempo per gli interventi nel calendario dei lavori attribuito al gruppo misto “è ripartito tra le componenti politiche in esso costituite, avendo riguardo alla loro consistenza numerica”. Nella discussione sulle linee generali di un progetto di legge ha la parola un deputato per ciascuna componente (art. 83), così come può intervenire un membro per ogni componente, tra l’altro, su articoli, emendamenti e subemendamenti (art. 85, comma 7) e sulla questione di fiducia posta dal governo (art. 116, comma 3); le componenti possono poi essere invitate alle conferenze dei capigruppo convocate per questioni di straordinaria importanza, ma solo se hanno più di dieci membri.

Il discrimine è importante. Di norma per costituire una componente servono dieci deputati, ma l’art. 14, comma 5 consente che gli eletti siano solo tre, purché rappresentino minoranze linguistiche tutelate dalla Costituzione (e siano legati a liste espressione di quelle minoranze), oppure purché “rappresentino un partito o movimento politico la cui esistenza, alla data di svolgimento delle elezioni per la Camera dei deputati, risulti in forza di elementi certi e inequivoci e abbia presentato, anche congiuntamente con altri, liste di candidati ovvero candidature nei collegi uninominali”. Il testo si riferisce alla legge elettorale allora vigente, ma si applica anche al solo collegio uninominale rimasto, quello della Valle d’Aosta.

Per i proponenti, i membri dell’aspirante componente dovevano “dimostrare la sussistenza di un movimento organizzato e diffuso nel Paese” con una consistenza parlamentare minima (tre eletti), segni “certi e inequivoci” dell’esistenza del soggetto politico (per la Giunta per il regolamento potevano essere “un simbolo, una denominazione, un’attestazione documentaria o, comunque, una qualche forma di notorietà”) e la partecipazione al voto. La norma in deroga era stata pensata nella XIII legislatura per dare visibilità, spazio e agio nell’azione ai partiti che, dopo le elezioni, avevano una presenza significativa alla Camera, ma non avevano deputati sufficienti per costituire un gruppo o una componente.

La mutazione

Dalla XVI legislatura, però, l’istituto iniziò a cambiare forma: le componenti in deroga a volte sorsero a una certa distanza dalle elezioni (capitò all’Udeur, inizialmente compresa nella Margherita ma poi tornata autonoma), magari in periodi più vicini al nuovo voto (fu il caso, per esempio, del Movimento dei Repubblicani europei, che aveva corso alle politiche). Era un modo per avere tempo in aula e visibilità, ma probabilmente interessava pure un altro aspetto: “le dotazioni e i contributi assegnati al Gruppo misto – precisa l’art. 15, comma 3 del regolamento – sono determinati avendo riguardo al numero e alla consistenza delle componenti politiche in esso costituite, in modo tale da poter essere ripartite fra le stesse in ragione delle esigenze di base comuni e della consistenza numerica di ciascuna componente”. Alle componenti, cioè, sono garantiti più fondi per l’attività e i collaboratori da assumere, più personale e più spazi rispetto a quelli per i senatori non iscritti a componenti.

gianfranco rotondi

Nel 2005 si fece un passo in più: Gianfranco Rotondi e altri due deputati ex Udc vollero creare la componente del partito nato nel 2004, la Democrazia cristiana (poi Democrazia cristiana per le autonomie). Non avendo corso alle elezioni, ci voleva un altro partito che avesse presentato candidature nel 2001 e desse la copertura chiesta dal regolamento: provvidero i Verdi-Verdi, nati in Piemonte nel 1990, in rapporti col centrodestra e che avevano presentato liste. Il nome, però, poteva dare problemi: da anni la Federazione dei Verdi, in Parlamento dal 1987, lamentava un uso confusorio della parola “Verdi” e nel 2004 il Consiglio di Stato aveva messo in luce un rischio di confondibilità. La componente nacque comunque (grazie, come disse Rotondi a Sebastiano Messina per Repubblica, “alla santità democristiana di Casini”, presidente della Camera) con la deroga fornita dai Verdi-Verdi, ma il nome scelto fu “Ecologisti democratici”, lo stesso usato poi dai Verdi-Verdi nel 2006 alle elezioni politiche, dopo la bocciatura del simbolo originario.

Si capì, dunque, che pure un partito che non aveva partecipato direttamente alle elezioni (perché non aveva presentato liste o era nato dopo) poteva creare la sua componente nel gruppo misto, purché si appoggiasse a un partito che le candidature le aveva presentate, magari affiancando il proprio nome a quello del “derogante”.

Evoluzioni recenti

In seguito, il meccanismo è stato ripetuto più volte. Nella XV legislatura (la prima dell’era Porcellum), il 16 marzo 2007 alla Camera sorse la componente “Repubblicani, liberali, riformatori”, creata da Giorgio La Malfa, Francesco Nucara e Giovanni Ricevuto: tutti e tre erano stati eletti in Forza Italia, il terzo in quota Nuovo Psi (ma aveva lasciato il gruppo), i primi due come repubblicani (ma si erano iscritti subito al gruppo misto). Siccome il Nuovo Psi aveva costituito un gruppo con la Dca di Rotondi e il Pri non aveva presentato liste, la componente fu fondata con l’appoggio del Partito liberale italiano di Stefano De Luca, che aveva raccolto le firme per partecipare alle elezioni, pur senza avere eletti.

Stefano De Luca

Nella scorsa legislatura la Lega Sud Ausonia fece nascere la componente di Noi Sud (poi Autonomia Sud) di Arturo Iannaccone; il Partito pensiero e azione di Antonio Piarulli fece altrettanto con Grande Sud di Gianfranco Miccichè; di nuovo il Pli ha via via accolto sotto il suo nome vari parlamentari che hanno abbandonato il Pdl e così via.

Nell’attuale legislatura, prima del ritorno in Parlamento del Ppa, si era già assistito a due episodi significativi. Fare!, gruppo legato a Flavio Tosi, è riuscito a costituirsi in componente grazie al Pri, mentre il Psi, che aveva candidato i suoi esponenti all’interno del Pd, si è dovuto rivolgere al Pli (ancora loro!): entrambe le formazioni hanno partecipato alle elezioni, anche se nessuna delle due è arrivata allo 0,1% nazionale (anche perché avevano presentato liste solo in poche circoscrizioni). Di fronte a ciò, i casi dei partiti Maie e Usei, che hanno eletto i loro deputati all’estero e hanno ampliato i nomi delle loro componenti dopo aver accolto gli aderenti rispettivamente ad Ala di Verdini e a Idea di Quagliariello, sembrano ordinaria amministrazione.

Ipotesi per il futuro

Se le cose stanno così, essendo probabile che nei prossimi mesi si verifichino altre scissioni e uscite dai gruppi maggiori, è possibile che altre formazioni presenti alle ultime elezioni e rimaste fuori dal Parlamento vengano contattate da coloro che vogliono creare la componente alla Camera, per godere dei vantaggi di quello status (compresa, magari, la possibilità di essere esentati dalla raccolta firme alle elezioni politiche, in caso di normativa favorevole come quella del 2008). Per inciso, quale sia il vantaggio per il partito escluso dalla Camera che si presta a tali operazioni non è chiaro: c’è chi, come Piarulli del Ppa, precisa di non avere chiesto e avuto un euro, accontentandosi di vedere il nome del suo soggetto politico sugli schermi delle dirette parlamentari e sui resoconti o di collaborare all’attività politica; in altri casi, da più parti si sono rincorse le voci che la deroga sia stata pagata con moneta sonante o con altri benefici (cosa che negli anni si è detta pure per alcuni accordi tecnici che consentivano a certe liste di non raccogliere le firme alle elezioni).

Dopo uno sguardo sommario, si scopre che sono 34 le formazioni che hanno presentato liste almeno in una circoscrizione e non sono entrate alla Camera (avendo già tolto Pri, Pli e Ppa); a queste bisognerebbe aggiungere le 3 che hanno corso per aggiudicarsi il collegio uninominale della Valle d’Aosta. Significa dunque che potrebbero formarsi altre 37 componenti? Ovviamente no, per varie ragioni.

Si dovrebbero escludere, innanzitutto, le formazioni strettamente legate a un territorio, che difficilmente potrebbero accettare di favorire partiti che non condividano gli stessi ideali: vale per le formazioni valdostane (Union Valdôtaine Progressiste, Autonomie Liberté Démocratie, Nation Val D’Outa), ma anche per quelle radicate in altri territori (Die Freiheitlichen, Indipendenza veneta, Partito sardo d’azione, Liga Veneta Repubblica, Veneto Stato, Indipendenza per la Sardegna, Meris), a meno che ovviamente gli interessati a costituire la componente non si sentano legati alle stesse cause politiche. Analogamente, le liste legate a campagne decisamente settoriali, come il Movimento italiano disabili e Staminali d’Italia, difficilmente sarebbero le prime a essere contattate per un accordo di rappresentanza parlamentare.

Sarebbero fuori gioco, poi, anche i partiti e gruppi troppo connotati politicamente, come La Destra, Partito comunista dei lavoratori, Forza nuova, Casapound Italia, Fiamma tricolore, Partito di alternativa comunista, Rifondazione missina italiana (cioè il Movimento idea sociale), Progetto nazionale e Democrazia Atea: potrebbero non essere disposti loro all’alleanza tecnica, così come coloro che volessero fondare la componente potrebbero non essere interessati dall’inizio. Lo stesso discorso varrebbe per formazioni forse non più esistenti, probabilmente non in buona salute: si possono considerare qui Futuro e libertà, Rivoluzione civile e Fare per fermare il declino.

Partito pirata (Marsili)

Chi resterebbe disponibile dunque? Una dozzina di sigle e simboli, dal nome sufficientemente generico da poter essere utilizzato senza troppi problemi. Tra le liste che erano parte del centrodestra, potrebbero esserci Grande Sud – Mpa, i Moderati in Rivoluzione di Samorì, il Partito pensionati (settoriale come ambito, ma molto noto a livello nazionale), Intesa popolare (movimento creato da Giampiero Catone, ora legato a Rivoluzione cristiana di Rotondi) e Liberi per una Italia Equa (progetto politico di Angelo Pisani). Al di fuori dei poli, c’è Io amo l’Italia di Magdi Cristiano Allam (connotato politicamente, ma dal nome universale), ci sono i Riformisti italiani di Stefania Craxi, gruppi meno noti come Popolari uniti, Unione popolare e Tutti insieme per l’Italia. Imbattibili per originalità sarebbero però i Pirati, non quelli del Partito pirata ufficiale ma quelli arrembanti di Marco Marsili (che prima del voto del 2013 contribuirono a movimentare il clima al Viminale) e il Voto di protesta di Giuseppe Cirillo, alias Dr. Seduction (già noto per aver creato le liste Preservativi gratis e Impotenti esistenziali).

Dobbiamo aspettarci, nella seconda metà della legislatura, ben dodici microcomponenti nuove alla Camera? Ovviamente no: potrebbe non nascerne nessuna, ma dovesse nascerne una nuova, con meno di dieci deputati, è quasi certo che pescherà da questo elenchino. Con nuovi soldi da stanziare e nuovi uffici da assegnare, ammesso che lo spazio ci sia ancora e non tocchi trovarlo in altri palazzi.

Tratto da www.isimbolidelladiscordia.it

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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